«Risposte nuove per uscire dalla crisi»
L'Eco di Bergamo, 21/12/13
«La vicenda dei Riuniti è emblematica dell’approccio abbastanza distorto che abbiamo avuto per anni verso il mercato immobiliare». Un mese fa il suo intervento al convegno organizzato dall’Ordine degli architetti sul futuro dell’area dell’ex ospedale aveva strappato applausi a scena aperta. Preciso e provocatorio, quasi chirurgico: e del resto Ezio Micelli, docente allo Iuav di Venezia e già assessore nel capoluogo lagunare, non è tipo da girare intorno alle cose.
«Per anni abbiamo spostato la linea tra pubblico e privato in direzione di quest’ultimo, cedendo porzioni anche importanti di città all’investitore perché si pensava fosse il modo giusto di valorizzarle. E cosa voleva dire questo? Un percorso dove la parola valorizzazione equivaleva a dire privatizzazione con variante ed aumento di potenziale edificatorio. Questo era il senso».
Il famoso privato salvatore della patria...
«Ma sì, del resto sono 20 anni che continuiamo a pensare che il debito pubblico si salvi con la valorizzazione del patrimonio: che il pubblico gestisce male le cose, è inefficiente, e che poi arriverà il privato. Solo che dal 2006 ad oggi abbiamo assistito ad un numero impressionante di operazioni finite in stallo: progetti che ci sembravano meravigliosi, che ci avrebbero regalato città moderne e super efficienti, alla fine si sono fermati. E questo perché il mondo è profondamente cambiato: non in modo congiunturale, ma strutturale».
E adesso com’è la situazione?
«Complessa e terribilmente delicata. Nel 2006, dopo la grande sbornia, pensavamo di vivere un paio d’anni di crisi, un passaggio quasi fisiologico. Doveva passare la nottata e poi nel 2011-2012 riprendeva tutto, e con le stesse logiche di prima: il privato ha così messo a bilancio il valore delle aree acquistate e rinegoziato il debito con le banche, il pubblico è rimasto fermo sulle sue prospettive. Poi siamo passati al 2013 e non è cambiato nulla».
Ora da dove ripartiamo?
«Dai fondamentali. L’immobiliare cresce se crescono i due grandi determinanti: l’economia e la popolazione. Solo che non vedo né il primo né il secondo. Da 15 anni il Paese, se cresce, lo fa dello zero virgola qualcosa: e da un punto di vista demografico gli abitanti sono sì aumentati, ma sul versante dell’immigrazione. E allora o facciamo finta di niente e rimuoviamo la realtà, oppure a fronte di una crisi che si trascina da 15 anni, minando il risparmio di tutti, dobbiamo cominciare a pensare questi patrimoni immobiliari in modo diverso».
Proviamoci...
«Servono altre logiche, una prospettiva differente. Aspettare che arrivi il grande investitore vuol dire credere a Babbo Natale: ci fa stare bene di questi tempi, ma non è la realtà. Quante volte abbiamo detto “facciamo un’asta, che poi arriva qualcuno che compra tutto in blocco e ci pensa lui”?».
Con i Riuniti è andata così.
«E infatti le due aste sono finite deserte, qui come in tutta Italia. Perché non esiste oggi un investitore che arriva in realtà di provincia seppure ricche come Bergamo a salvare progetti che spesso non hanno più senso economico, né capo e né coda. Diverso è il discorso di alcune grande operazioni di Roma e Milano, dove comunque gli investitori si muovono con grande oculatezza».
Quindi come ne usciamo?
«Con una discontinuità funzionale. E, mi passi l’ironia, servono soluzioni che non siano partite di giro: con il pubblico che vende con una mano e ricompra con l’altra».
Sembra proprio il caso della Cassa depositi e prestiti.
«L’ha detto lei. Io non voglio fare polemica...».
Cosa intende con discontinuità funzionale?
«Per esempio livelli di densità coerenti con la realtà dei fatti: realizzare migliaia di alloggi per mercati che non sanno più cosa farsene è un problema, non una risorsa. Meglio piuttosto spazi aperti che generano qualità, ben più adatta a realtà come Bergamo. E anche in merito al recupero dobbiamo essere chiari: per anni abbiamo pensato che buttare giù e rifare fosse comunque conveniente, a prescindere. Ma spesso demolire significa perdere valore, soprattutto se non c’è domanda: ed è da qui che dobbiamo ripartire, dalla reale domanda anche nei processi di riuso e rigenerazione».
In che modo?
«Pensando ad un settore che torni a volumi di produzione più contenuti ma più appropriati alla domanda, quindi alla realtà, e su questi costruire delle marginalità. Perché non possiamo nemmeno pensare ad imprenditori-benefattori che si muovono gratis et amore dei. Io uso sempre il paragone del vino...».
Prego?
«Dopo la crisi del metanolo, il settore mica si è fermato: ha risposto smettendo le grandi produzioni e puntando invece su una qualità molto più attenta al nuovo modo di vivere. Qualità con molta meno quantità consumata, insomma, e l’immobiliare deve cominciare a pensare con queste logiche. Perché non torneremo più ad investire e comprare case dalla mattina alla sera, e proprio la vicenda dei Riuniti lo conferma. Ma se ragioniamo di più sull’investimento, faremo di meno e meglio. Questo è un Paese che deve ritrovare il senso di uno sviluppo: non può più pensare di produrre migliaia di metri quadri di case e terziario perché, forse, magari, qualcuno in futuro le comprerà. Lavorando invece su scale d’intervento più limitate e attente alla qualità, le imprese torneranno a fare soldi e a stare sul mercato con maggiore convenienza».
Dino Nikpalj
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